Come cura il Piccolo gruppo?
La condivisione ed elaborazione del dolore.§
Claudio Neri
Per sopportare e superare dolori ed angosce, può essere necessaria la presenza di un compagno o di una compagna partecipe e capace. Talora, però, questa persona non è disponibile. Oppure, peggio ancora, al suo posto vi è qualcuno incapace di rapporto. Il dolore e l’angoscia, allora, non vengono alleggeriti, ma ulteriormente aggravati.
Stendhal (1839, p. 346, Cap. XIX, 2 o 3 pagine prima della fine) – ne La certosa di Parma – descrive una situazione di questo tipo. Egli parla dell’ansia che la duchessa Sanseverina vive per i rischi a cui è esposto Fabrizio Del Dongo, il ragazzo da lei teneramente e appassionatamente amato. L’angoscia della duchessa è aggravata dalla presenza del suo amante ufficiale di quel periodo, il conte Baldi.
«Per resistere alle atroci notizie su Fabrizio che continuamente si diffondevano, la duchessa avrebbe dovuto avere vicino un uomo intelligente e sensibile […]; la totale nullità di Baldi, isolandola ancor di più nei suoi pensieri, la faceva vivere in uno stato di angoscia spaventosa […]».
Per fare fronte ad alcune forme di dolore e di angoscia, una sola persona, una sola mente non bastano; sono necessarie due menti, due caratteri, due intelligenze che si combinino tra loro ed operino congiuntamente in modo efficace. È necessario non il “Sistema di una singola personalità”, ma un “Sistema di due”.
L’altra persona o individuo che entra a fare parte del “Sistema di due” può essere la moglie, il marito, un amico, un parente, oppure lo psicoanalista della persona sofferente.
Un efficace “Sistema di due” può, ad esempio, essere generato dall’impegno di due persone, non soltanto in una relazione, ma anche in un’assidua conversazione.
Il fatto che tale Sistema si sia costituito fa si che ambedue le persone che lo formano siano in grado di sopportare qualcosa di più grande di ciò che avrebbero potuto sopportare come singole personalità.
Ciò che il nuovo Sistema di due è in grado di sopportare è anche più grande di ciò che avrebbe potuto sopportare la somma di due “Sistemi singola-personalità”.
L’elaborazione e trasformazione di alcune esperienze ed eventi traumatici, però, può avvenire soltanto in un setting di gruppo (Ogden 2013, p. 640). [i] In ogni caso, in un setting di gruppo, avviene in modo diverso da come si attua la trasformazione in un Sistema di due.
Lutto psichico e lutto sociale
Un esempio di esperienza traumatica che richiede la presenza di un gruppo è la perdita di una persona cara. Questa perdita richiede l’attivazione di uno specifico processo: il lutto. Francesco Corrao (1986) – ampliando la visione psicoanalitica tradizionale – ha mostrato come il lutto abbia due facce: “lutto psichico” e “lutto sociale”.
Il “lutto psichico” non si sviluppa nel vuoto. L’individuo non inventa ex novo le forme e il linguaggio del proprio lutto. Queste gli vengono offerte dalla comunità a cui appartiene.
Quando un uomo o una donna muore, i familiari e le altre persone che gli/le sono strettamente legati vanno a dare l’ultimo saluto al corpo. Si svolge il funerale alla presenza del prete o una cerimonia laica. Gli amici si recano in visita di condoglianza. Congiunti e conoscenti parlano del morto e ne mettono in luce qualità e tratti di carattere. I familiari indossano abiti scuri ed osservano per un certo tempo regole particolari di comportamento.
Lutto sociale e lutto condiviso in un gruppo
Gli atti propri del lutto sociale possono essere più o meno sentiti. Un indice di quanto lo siano veramente è dato dalla qualità dei momenti di silenzio durante i funerali, che dipende da chi e da quanti partecipano sentitamente al dolore (Badoni 2010).
I riti e le forme tradizionali del “lutto sociale” si mettono in opera in ogni caso. Essi però rimangono freddi e distanti, se manca un gruppo di persone tra loro legate da vincoli di affetto e solidarietà, che con la sua partecipazione dia loro vita ed autenticità. È questa partecipazione autentica che trasforma il lutto sociale in un lutto condiviso da un gruppo.
Il “lutto sociale”, infatti, è pura forma, se non è abitato dal dolore delle persone che hanno subito una perdita, e cercano attraverso il lutto una via per tornare alla pienezza della vita, pur nelle nuove condizioni che si sono determinate.
Altre perdite
I diversi momenti del “lutto sociale” sono dettagliatamente indicati dalla tradizione, per ciò che riguarda la morte di una persona ed il comportamento dei suoi congiunti. La tradizione culturale e religiosa fornisce riti e prescrizioni su cui l’individuo ed il gruppo delle persone che gli sono vicine possono modellare e cadenzare i tempi e le vicissitudini del proprio “lutto psichico”.
Vi sono però altre perdite, che possono essere quasi altrettanto importanti della morte di una persona prossima: le interruzioni di gravidanza e l’aborto, la malattia grave di un figlio con la conseguente perdita di un’immagine di bambino sano, un intervento chirurgico con il venire meno del rapporto di fiducia col proprio corpo e della fantasia di invulnerabilità, la fine dell’attività di un’associazione culturale o di un’azienda, la caduta di un progetto di lavoro importante con la sottrazione della carica di speranza che gli era connessa.
Per tutte queste perdite, la nostra tradizione non mette a disposizione riti e forme di “lutto sociale” altrettanto elaborate e ricche, rispetto a quelli che vengono attivati per la morte di un parente. Anche negli ospedali, spesso, non sono previste situazioni e procedure che potrebbero fornire tempi e modi per compartecipare il vissuto di perdita.
La mancanza di adeguate forme del “lutto sociale” in questi casi si fa sentire. La mobilitazione e lo stesso riconoscimento della perdita possono essere insufficienti. La partecipazione al lutto del gruppo di amici e congiunti spesso si verifica in modo meno intenso ed attivo. La persona cha ha subito la perdita si trova frequentemente a dovere affrontare l’esperienza della perdita e del “lutto psichico” in una situazione di una solitudine più o meno completa (Gozzetti, 2001).
Vitalità del lutto
Freud ha messo in luce qual è la reale posta in gioco. Non si tratta soltanto di essere capaci o non essere capaci di fare fronte al dolore della perdita. Si tratta invece, anche e soprattutto, potere affrontare un cambiamento, dare vita a nuove relazioni.
Freud in Caducità (1915, pp. 174-6) scrive.
«[…] Perché [il] distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero […]. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo […] è il lutto.»
«[…] Il lutto, [però,] per doloroso che sia, si estingue spontaneamente. […] Allora la nostra libido è di nuovo libera (nella misura in cui siamo ancora giovani e vitali) di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora. […] Torneremo a ricostruire […] su un fondamento più solido e duraturo di prima.»
Se il lutto viene considerato secondo la prospettiva indicata da Freud, ci appare come centrale per la cura. Cura, infatti, è andare avanti, separarsi dalle persone care, da noi stessi come eravamo e come non siamo già più.
La presenza di un gruppo – capace di tenerezza – rende più lieve e meno brusco questo difficile percorso (Neri 2013, p. 7).
Anche il momento di fine del lutto psichico ha bisogno di adeguate forme di lutto sociale, della presenza di un gruppo e di una piccola cerimonia. Vi è bisogno che il compimento del lutto psichico sia riconosciuto e ratificato almeno da un testimone. Questo testimone può essere un gruppo nella sua interezza o una “persona speciale” che rappresenta un gruppo.
Ad esempio, una donna che aveva perso un figlio in un incidente d’auto otto anni prima, torna dall’analista cinque anni dopo la fine dell’analisi. Ha bisogno di sentirsi dire da una persona che le è cara e che è investita di autorevolezza, che adesso: “Il lutto è veramente finito”, “Adesso sta bene”. Si è innamorata di un uomo diverso dal marito e sente di potere ritornare alla vita (Bigi 2010).
Malinconia
L’impossibilità ad avviare e soprattutto a completare il processo del lutto esita non in nuovi investimenti affettivi, ma nello scenario della malinconia. La persona malinconica permane in una condizione di “lutto strisciante”. I processi del lutto, infatti, non sono conclusi, ma sospesi. Il dolore diventa pena interminabile.
Il quadro è caratterizzato dall’impossibilità a partecipare pienamente alla vita. La colpa la fa avvitare su se stessa in incessanti ruminazioni ed interrogativi. L’assunzione di droga ed il tenersi costantemente occupati (sindrome da iperlavoro) sono manifestazioni frequenti. Il dolore della perdita, che non è stato adeguatamente elaborato, tende infatti a ripresentarsi di continuo e deve essere tenuto costantemente a bada (Neri 2001, 2006).
Il rapporto con ciò che è stato perso rimane, però non è più un rapporto vivo, un rapporto che dà forza ed alimenta, ma è un legame immiserito, che peraltro viene incessantemente ricercato.
Il ritrovamento di un gruppo – oppure di un’analista che rappresenta un intero gruppo – può essere il primo passo per riprendere il processo di “lutto psichico” che era rimasto sospeso e la condizione malinconica che ne era conseguita.
Un gruppo di parenti
Chiara Mauri (2010, p. 269) fornisce un’illustrazione dell’avvio del processo di lutto psichico in un gruppo, formato da parenti di pazienti, che erano stati ricoverati in un Hospis, e che sono morti.
«Le prime sedute […] sono state caratterizzate dalla narrazione delle vite e delle vicende relazionali con i congiunti persi, dal dolore e dal pianto, dal senso di colpa dietro cui sovente sembrava affacciarsi la rabbia nei confronti del defunto.
L’impressione è che il contesto [di gruppo] abbia facilitato il movimento delle emozioni e la possibilità di iniziare ad allentare il controllo su aspetti che spaventavano, avvicinandosi gradualmente a toccare il dolore ed il timore di perdersi insieme al defunto.
Il mio vissuto è che da subito nel gruppo le emozioni circolassero in maniera intensa e veloce […].
Penso che, per poter piangere, spesso è necessario qualcuno accanto che accolga le lacrime: emerge la differenza sostanziale del pianto vissuto in solitudine come qualcosa che aumenta il dolore lasciando confusione e nonsenso, la paura della frammentazione e della perdita di sé, a differenza del pianto che avviene in gruppo, laddove superati alcuni sentimenti difensivi di pudore, è sperimentato come un pianto “caldo”, accolto da un ambiente contenitivo, che alleggerisce e gradualmente rinsalda.
Con il tempo, i membri del gruppo hanno potuto iniziare a sperimentare le diverse gamme di emozioni […]. Questo appare nettamente in contrasto con un’evoluzione patologica del lutto in cui le emozioni sono congelate, dove muore con il defunto la capacità di sentire […].»
Funzioni messe in opera dal gruppo
La presenza di un gruppo partecipe come quello di cui parla Chiara Mauri, rassicura le persone che hanno subito la perdita di un congiunto. Inoltre, il gruppo – attraverso un’azione di contenimento, permette l’allentamento del controllo sulle emozioni da parte dei singoli partecipanti. Il gruppo infine – attraverso l’attivazione di una positiva socialità – allontana il rischio di un blocco della capacità di sentire.
Svilupperò queste indicazioni toccando alcuni punti che corrispondono ad altrettante funzioni, messe in opera dal gruppo:
- Presenza animale;
- Sottrazione di centralità al dramma;
- Preservazione della continuità della vita;
- Sostegno del pensiero.
Queste funzioni – nel gruppo – sono attive contemporaneamente, seppure con una diversa prevalenza dell’una o della’altra, a seconda delle occasioni e necessità che si presentano.
Presenza e vicinanza animale
Alcuni animali esprimono molto bene la loro empatia per una persona sofferente, manifestandola soprattutto con la presenza e lo sguardo. Cani e gatti – ad esempio – prendono posto nelle vicinanze del padrone che si trova in una condizione di pena fisica o psicologica. Presidiano la stanza e guardano il padrone sofferente (Berti Ceroni, 2010).
In questo modo, essi sembrano esprimere, non soltanto il loro affetto, ma anche la sicurezza di essere in possesso di una competenza. Non mostrano alcuna esitazione. È come se dicessero: “Questo dolore è affare mio!”, “So cosa fare; e lo faccio molto semplicemente e immediatamente!”
Anche gli uomini sono potenzialmente dotati di una capacità di “presenza animale”. È importante affinarne l’uso. È anche importante che il terapista – quando sarà arrivato il tempo opportuno – segnali al paziente che ha avvertito e preso nota di quando, nella terapia si è stabilita questa forma silenziosa e basica condivisione. Da tale segnalazione, infatti, può conseguire un ulteriore positivo effetto terapeutico (Badoni 2010).
Patrizia Paiola (2010, p. 4) parla di un aspetto della “presenza animale”, indicandola come condividere dal “luogo del tacere”:
«In quel momento potevo solo essere presente nel “tacermi” […] solo dal […] silenzio avrei potuto realmente guardare al suo dolore e parlarle.»
Felice Cimatti segnala un altro aspetto importante. La presenza animale non corrisponde soltanto al “luogo di chi tace per potere condividere”, ma corrisponde anche alla funzione di chi dà vita e partecipa ad un particolare campo somato-psichico condiviso. Cimatti, infatti, formula l’ipotesi che tra la persona che partecipa al dolore e la persona sofferente si crei un “campo trascendentale” di vicinanza animale. Questo campo, talora, può essere la sola forma di vicinanza tollerabile per una persona che sia afflitta da un grande dolore. Egli (2010, p. 9) scrive:
«Il “campo trascendentale” che si crea fra il medico ed il malato [nella compartecipazione al dolore] non si costruisce sulle parole, ma nemmeno sulla comunicazione non verbale (che è ancora, evidentemente, una forma di comunicazione fra soggetti), bensì […] sulla vicinanza animale fra i due corpi che si trovano a condividere lo stesso spazio fisico […].»
Searles (1960, pp. 308-309 e p.315) chiarisce il senso dell’espressione “vicinanza animale”:
«Imparai, nel corso di parecchi mesi difficili, come ogni genere di pressione, al di là della mia inevitabile presenza fisica nella stanza con lui, gli rendesse ogni cosa soltanto più ardua.»
«La natura quasi totalmente non verbale del rapporto terapeutico […] mi faceva pensare che il paziente ed io ci stessimo relazionando come fanno gli animali, visto che dalla situazione era escluso proprio lo specifico elemento umano della parola.
Dopo svariati mesi, fui in grado di sentire un siffatto modo di relazionarsi come un’esperienza piacevole e arricchente. Ma prima di arrivare a vedere la faccenda in questa maniera, la vissi come una temibile insufficienza.»
La funzione “presenza animale” si può attivare, tanto in un “Sistema di due”, quanto in un “Sistema di gruppo”.
Nel “Sistema di due” questa funzione – secondo la mia esperienza – è più intensamente affettiva e si esprime anche con l’accudire e con piccoli gesti di prossimità corporea. Il terapista genera insieme alla persona sofferente un campo di “presenza animale”, poi, per lungo tempo è quasi totalmente impegnato nel mantenimento e modulazione di tale campo.
Nel gruppo “presenza animale” si presenta in forme più compatte, solide e solenni – anche se meno fini e sottili. La differenza più significativa, rispetto al “Sistema di due” però, non è questa; consiste invece nel fatto che nel setting di gruppo il mantenimento del campo di presenza animale non assorbe tutte o la maggioranza delle energie. Il gruppo infatti ha una struttura plurale e poliedrica. Le persone che lo compongono possono svolgere anche altre funzioni (espressione di sentimenti, avvicinamento/allontanamento, riflessione,) senza che il campo di “presenza animale” subisca incrinature troppo grandi.
Sottrarre centralità al dramma
In alcune culture, la drammatizzazione fa parte dell’espressione e della condivisione del dolore. In molti casi, però, un surplus di drammaticità può drenare molte energie vitali e rendere più difficile la ripresa. Per evitare questa dispersione di energie, è opportuno mantenere il contatto con il dolore e con la persona sofferente, cercando però nello stesso tempo di togliere centralità alla drammaticità che accompagna sempre il dolore.
Per dare maggiore sostanza a questa affermazione mi varrò, non di un resoconto clinico, ma del potere evocativo di un quadro di Brueghel e di alcuni versi di Auden. Il dipinto che mostrerò è intitolato La caduta di Icaro. [ii]
IMMAGINE
Pieter Bruegel: La caduta di Icaro, 1558
La tela presenta un lembo di terra, che si apre su un vasto paesaggio marino. In primo piano, un contadino con la camicia rossa lavora all’aratro che è trainato da un cavallino. Nella fascia media del quadro si vedono il mare disseminato di scogli ed isolotti, una grande nave con le vele spiegate e più distante una nave più piccola. In alto, leggermente sulla destra, sopra il mare, il cielo è infiammato dall’alba di un giorno radioso.
A chi guarda il dipinto, questa intensa alba ricorda la causa immediata della caduta e della morte di Icaro: il sole ha sciolto la cera delle sue ali, fatte di penne d’uccello.
Un piccolo gregge di pecore pascola, sulla stretta striscia di terra, tra il campo arato ed il mare. Il gregge è accompagnato da un pastore, che guarda verso il cielo o la cima di un albero, comunque nella direzione opposta a quella della caduta di Icaro.
La rappresentazione del ragazzo e della sua morte si trovano nel riquadro inferiore destro del dipinto. Si vedono soltanto la gambe di Icaro ed anche quelle si scorgono, soltanto facendo molta attenzione. Sono piccole: una gamba delle due gambe ed un piede del ragazzo sono già quasi interamente sommersi dall’acqua.
W.H. Auden (1940) parla di questo quadro in una poesia, scritta durante gli anni della seconda guerra mondiale. Egli avanza l’ipotesi che Brueghel abbia voluto raffigurare, non tanto la morte di Icaro, quanto e soprattutto la reazione (o meglio la mancanza di reazione) dell’ambiente all’evento. Auden scrive:
«Sul dolore la sapevano lunga,
gli Antichi Maestri quanto ne capivano bene
la posizione umana; […]
Nell’Icaro di Brueghel, per esempio, come ogni cosa ignora
serena il disastro! L’aratore può
avere udito il tonfo, il grido desolato,
ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva
come doveva sulle bianche gambe inghiottite nelle verdi
acque; e la ricca ed elegante nave che doveva avere visto
una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo.
Aveva una meta e via passava placida.» [iii]
Placida indifferenza – secondo Auden – è la reazione più comune al dolore degli altri.
Preservazione della continuità della vita
Auden ha certamente ragione. Tuttavia, seguendo le indicazioni di Mercedes Lugones (2010) voglio dare anche una diversa e più positiva lettura del quadro di Brueghel.
Questa lettura è basata sul fatto che la figura posta al centro del dipinto non è Icaro, non è neanche la piccola figura bianca di un uomo che si china in avanti verso il ragazzo caduto, come a porgergli un inutile soccorso, ma è l’aratore che continua il suo lavoro.
L’aratore è una figura-chiave della bibbia e dei vangeli. Certamente era ben presente a Brueghel. L’aratore è chi si concentra nel preparare il terreno per la semina e per il raccolto futuro. In termini biblici ed evangelici, chi tralascia la vita mondana per concentrarsi sulla vita eterna.
L’ipotesi che voglio sostenere è che l’aratore del quadro di Brueghel non sia indifferente o distaccato rispetto alla tragedia ed al dolore di Icaro, ma si stia concentrando sul compito di mandare avanti la vita.
Questa funzione è strettamente collegata a quella che ho descritto nel paragrafo precedente: sottrazione di centralità al dramma.
È la funzione che viene svolta da chi si concentra sulle esigenze della vita quotidiana e prepara (da subito) il terreno per ciò che seguirà. Questo è il senso del mantenere fissa l’attenzione sul futuro raccolto, nel momento del dolore.
Svilupperò questo punto e lo metterò in più stretta relazione con il lavoro di gruppo. Per farlo, mi varrò della presentazione di un frammento clinico.
Il gruppo di cui parlerò è stato ed è ancora ricco di idee e cambiamenti interiori. È anche un gruppo molto fecondo di bambini. Agata – durante i cinque anni della sua partecipazione alla analisi di gruppo – ne ha avuto due. Gaetano – nello stesso periodo – ha avuto due figli da sua moglie. Anche Carlo, recentemente, è diventato padre di un bambino.
Oltre le persone che ho nominato, del gruppo fanno parte attualmente anche Marisa, Carmen e Roxana. Marisa ha più di cinquanta anni; per lei la possibilità di avere figli è andata sullo sfondo. Carmen è entrata nel gruppo da pochissimi mesi e si sta ancora acclimatando. Roxana invece, recentemente, è arrivata alla decisione di avere un bambino.
Nel momento stesso in cui ha incominciato a maturare questa idea, però, Roxana si è resa conto di non essere assolutamente soddisfatta di molti aspetti del suo rapporto con il marito. Tra loro le liti ed i contrasti sono divenuti continui e progressivamente sempre più aspri. Per la verità, tra di loro – nascostamente – cresce anche l’attrazione sessuale. I rapporti sessuali sono più vivaci e soddisfacenti.
Roxana – durante le sedute – parla di una possibile separazione dal marito. Ma in effetti non riesce né a separarsi, né a stare bene con il marito. Durante le sedute si interroga ed interroga i partecipanti al gruppo: “Per avere un figlio, forse, sarebbe meglio che io avesse un partner più soddisfacente e di cui avessi ?”, “Ma, sarà capace di trovarlo?”. Avverte che il tempo stringe. Roxana, seppure da poco, ha superato i quaranta anni.
In queste condizioni – comprensibilmente – Roxana non riesce a rimanere incinta. È confusa, angosciata e molto sofferente. Rivolge la sua angoscia e la sua sofferenza contro il gruppo: “In fondo, non è servito a niente.”, “Ho fatto tante cose, ma quando qualcosa coinvolge anche un altro non riesco a risolverla”. Salta parecchie sedute. In fondo, Roxana vuole dire: “Non siete capaci di aiutarmi”.
La situazione di tensione è andata avanti alcune settimane, quando, nel corso di una seduta, Marisa rievoca un episodio di cui è stata protagonista un’altra paziente, Alessia, che ha da poco terminato l’analisi.
Tollerare espressioni di rabbia e attacchi svalutativi
Tollerare le espressioni di rabbia e gli attacchi svalutativi.
Accrescere l’autostima
Si può aiutare altri ad esprimere un dolore che essi possono soltanto subire. Il compito allora é duplice: condividere il dolore con un altro o con altri ed aiutare nella possibilità che il dolore possa essere espresso.
Il dolore dovrebbe essere accolto ed elaborato in una parte della mente che è stata istruita (e che è divenuta quindi affidabile e sicura) e poi mandare un’eco di come é stato sperimentato il dolore alla persona con la quale si è in rapporto. Quest’eco può prendere forma in parole. Può però prendere espressione anche semplicemente in una qualità della presenza o in una particolare postura del corpo.
Sostegno del pensiero
Freud – nella minuta G del 1895 – mette in relazione malinconia, dolore e inibizione dell’attività psichica. Malinconia e dolore si alimentano reciprocamente. La loro azione congiunta provoca una sorta di emorragia interna, con una caduta della spinta alla valorizzazione della vita ed un rallentamento dell’attività affettiva ed intellettiva.
L’analista, disponendosi a partecipare del dolore del paziente, corre il rischio di prenderne a prestito anche la più generale attitudine verso il ritiro e la depressione e quindi verso una ridotta attività mentale.
Questo rischio è minore quando ci si trova in un gruppo, invece che nel setting tradizionale.
Il primo compito che ci si trova di fronte è distinguere per quanto possibile l’angoscia dal dolore.
Questo è un passo estremamente significativo.
Il segno più evidente che si è riusciti a passare da una situazione in cui prevale l’angoscia, ad una nella quale vi è soprattutto dolore è la diminuzione della coazione a liberarsi della “angoscia-dolore” riversandola “all’esterno”. Intendo dire: cercando di “svuotarsene” mettendola nell’analista e nelle persone vicine.
Un altro compito importante è dare al dolore un nome appropriato.
Il terapista dovrebbe imparare a riconoscere i diversi nomi che ogni paziente dà alle differenti emozioni e stati mentali. Per esempio: “Sono ansioso”, “Sono spaventato”, “ Sono terrorizzato, “Sono imbarazzato” rappresentano varietà di sofferenze diverse? Mettiamo il caso che provaste a dipingerle, usereste lo stesso colore, colori diversi o diverse sfumature di un colore? (Rouchy, 1998).
Koinodinia: il legame stabilito dalla condivisione del dolore
Nel momento del dolore, un gesto di vicinanza affettiva è recepito come dotato di un particolare carattere d’autenticità. La persona sofferente avverte che chi lo compie le sta diventando molto caro. Il sentimento, solitamente, trova corrispondenza. A sua volta, chi ha saputo condividere la sofferenza di una persona avverte che questa le diviene cara.
I reciproci investimenti affettivi di due persone, che si trovano nella situazione di condivisione del dolore – seppure possano essere mossi da differenti motivazioni e necessità – sono tuttavia convergenti. Essi sono, inoltre, investimenti ingenti e profondi. Il dolore, spesso, divide anche persone che prima erano unite. Un evento doloroso, però, può divenire un’occasione per stabilire un legame.
Francesco Corrao ha chiamato Koinodinia la comunanza che nasce dal dolore. L’intensità e la durata di questo legame sono tanto grandi, da essere comparabili a quelle del legame di parentela o di un’antica e contraccambiata ospitalità. [iv]
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Stendhal (1839). La Chartreuse de Parme. Paris, Calmann-Levy. [trad. it. La certosa di Parma. Milano : Feltrinelli, 1993].
[i] Per scrivere questo paragrafo mi sono valso ampiamente di un articolo di Thomas Ogden. Ecco il testo di Ogden nella sua integralità. «That other person or people may be a spouse, a friend, a sibling, or an analyst. In conversation with another person or people the two (or more) bring to bear something larger than a single personality System. What is brought to bear on the unthinkable thought is also larger than the sum of the individual personality systems. The two or more people create an unconscious third subject that is capable of thinking what none of the people alone is capable of thinking, and taking in, in a transformative way.» «I think that some traumas can only be processed in a group setting.»
[ii] La caduta di Icaro si trova, insieme ad altri quattro o cinque quadri di Bruegel, in una magnifica piccola sala dei Musées royaux des Beaux-Arts di Bruxelles. È un olio su tela (poi montata su legno) di medie dimensioni, ma comunque abbastanza grande (73,5 per 112 cm).
[iii] Questo è il testo originale: «About suffering they were never wrong/ The Old Master: how well they understood/ Its human position; […]/ In Brueghel’s Icarus, for instance: how everything turns away/ Quite leisurely from the disaster; the ploughman may/ Have heard the splash, the forsaken cry/ But for him it was not an important failure; the sun shone/ as it had to on the white legs disappearing into the green/ Water; and the expensive delicate ship that must have seen/ Something amazing, a boy falling out of the sky, / Had somewhere to get to and sailed calmly on.»
[iv] Koinodinia è una parola composta da due termini greci κοινóς, algos (comune; condiviso) e δύνη, dune (dolore mentale, dolore psichico). Koinodinia è dunque la comunanza stabilita dal dolore. I greci avevano un differente termine per indicare il dolore fisico, somatico: áλγος, algos.
Category: Spazio Riflessivo
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